8 SETTEMBRE: LA GRANDE MADRE DI TUTTE LE FURBIZIE             


DA: INTERVISTA SULLA SINISTRA
Galli della Loggia
 
 
     "... La verità è che in Italia l'ambigua fine del fascismo genera un'ideologia antifascista altrettanto ambigua. Si afferma un regime, diciamo così, dalla doppia verità. Cioè, la maggioranza della popolazione non crede alla mitologia della Resistenza, anche perché sa bene di non avervi partecipato; non crede che siano stati i nostri pochi antifascisti a vincere il fascismo, non si lascia ammaliare dalle verità ufficiali. Sa però, in omaggio alla grande e cinica intelligenza italiana, che bisogna far finta di crederci. Perché è l'unica merce spendibile sul mercato politico interno e internazionale. Non c'è altro governo accettabile agli occhi di chi ha le carte in mano, gli americani.
    Ma questa doppia morale rode come un tarlo il tessuto connettivo della nostra giovane democrazia, e non ha cessato, fino a oggi, di minarne la fibra. Non si può costruire una coscienza civica su una base così malcelata e in sostanza menzognera. Nella sfera politica i membri della coalizione partitica antifascista si assicuravano reciprocamente che le cose stavano come a loro faceva comodo che fossero dipinte. C'era stata la rivolta del popolo italiano, insofferente dell'oppressione fascista; la repubblica era sorta per conseguenza di questa ribellione popolare, maturata dalla libera coscienza degli italiani, eccetera eccetera. Naturalmente il nuovo regime repubblicano-democratico doveva pur darsi una qualche legittimazione, e certamente la leggenda rosa di cui sopra ha adempiuto a questo ufficio. Insomma non se ne poteva fare a meno, è stato un fatto necessario, inevitabile. Ma una legittimazione del genere era sicuramente assai debole. Io sono convinto che il carattere progressivamente oligarchico-conservatore di quella che poi sarebbe stata chiamata la partitocrazia dipende da questa sua origine, che l'ha assomigliata a un gruppo di congiurati, legati per la vita alla preservazione della menzogna originaria su cui abbiano fondato la propria fortunata esistenza successiva. Ciò spiega anche, in buona misura, il silenzio che circondava fino a ieri il regime della corruzione. Tutti sapevano benissimo che le gigantesche macchine partitiche costavano ben più di quanto non ammettessero, ma tutti facevano finta di nulla, per non rompere il fragile tabù partitocratico. Solo in Italia è potuto accadere che il principale partito di opposizione non abbia avuto la benché minima parte nello smascherare la corruzione della sfera governativa. Ciò la dice lunga su che tipo di opposizione fosse quella del Pci e sul comune tabù fondativo che per mille vincoli lo legava agli altri attori del sistema politico.
    Non so se e quando l'Italia potrà guarire dal morbo morale che la nostra democrazia fu costretta a inocularsi nel 1945 per sopravvivere»
 
 
INTERVISTA SULLA SINISTRA Galli della Loggia. Laterza 1994.

CHI INCASSO’ LA PRIMA TANGENTE
I primi furti della nuova classe politica in fasce. Come scomparve la cassa della divisione "Monterosa", e in quali tasche finì. Una serie di gravissimi e inconfutabili documenti sulle responsabilità del C.L.N. e di alcuni partiti dell'epoca.
Ugo Giannuzzi
 
    5 gennaio 1947, il Capo della Polizia dell'epoca (Ferrari), indirizzò al Gabinetto del Ministro dell'Interno (Romita), l'appunto n. 555/5 di prot., RISERVATISSIMO, che qui di seguito si riporta:
 
Appunto per il Gabinetto del sig. Ministro.
    Tempo addietro fu fatto cenno sui giornali che al momento della liberazione del Piemonte una somma di 120.000.000 lire sarebbe stata consegnata ad una personalità di Torino la quale avrebbe rilasciato come compenso 10.000.000. Per incarico del Ministro disposi delle indagini in base alle quali accertai la sussistenza del fatto, sia pure senza dettagli, e mi fu fatto il nome del Rag. Passoni ex Prefetto di Torino, quale consegnatario della somma. Mi fu altresì riferiti che sul fatto esisteva un rapporto che in data 10 maggio 1946 era stato redatto ed indirizzato al Comando Militare Territoriale di Torino, Ufficio Amministrazione, dal Capitano Casertano Lauro Comandante la Compagnia dei Carabinieri di Ivrea. Il questore di Torino da me richiesto, invano domandava copia del suddetto rapporto. Rivoltomi il 12 dicembre 1946 al Comando Generale dell'Arma, questa mi ha fatto pervenire ieri l'appunto (senza data e senza missiva) di cui allego copia che non è, però, per quanto mi si è verbalmente affermato, copia del rapporto da me richiesto. Mentre procedo ad ulteriori indagini ritengo doveroso informare di quanto sopra
Il capo della polizia f/to Ferrari
 
     L’appunto fu esaminato dal Ministro che dispose di "Prendere atto, restando in attesa di conoscere l'esito delle ulteriori indagini al riguardo". E in effetti le ulteriori indagini portarono a scoprire che la cassa della Divisione "Monterosa" conteneva in realtà 135.000.000 di lire (del 1945 - ndr), che circa la metà di tale somma era scomparsa nel corso delle "radiose giornate" dell'Aprile-Maggio 1945 ad opera di alcuni appartenenti ad una banda partigiana, guidata da tal "Piero Piero", ben noto alla Questura di Torino per i suoi trascorsi, e di un paio di disertori della "Monterosa", fra cui il Sergente furiere dell'Ufficio Cassa del comando divisionale, Franco Alborghetti, che aveva preso accordi con il "Piero Piero" fin dal marzo precedente.
    Inoltre, fatto fondamentale, tornò alla luce il circostanziatissimo rapporto dei Carabinieri di Ivrea del 10 maggio 1946, che, ampliato di quanto si era riusciti ad appurare nel frattempo, anche con interrogatori dell'Alborghetti e di altri personaggi implicati, diede luogo ad una estesa relazione del Capo della Polizia, relazione che naturalmente finì sulla scrivania del nuovo Ministro dell'Interno, Mario Scelba.
    In tale documento, che porta il n. 555/5 di protocollo in data 19 aprile 1947, si confermano "le notizie emerse circa la distrazione di notevole somma... al momento della liberazione del Piemonte..." e si indicano il nome dell'ex Prefetto di Torino, rag. Passoni Pier Luigi, quale consegnatario della somma e le circostanze "che consentirono al comandante partigiano Pietro Urati (noto sotto il nome di battaglia di Piero Piero) di impadronirsi, il 25 aprile 1945, dei milioni della Divisione Monterosa".
 
Denaro a sacchi
    Dai verbali di interrogatorio dei personaggi, implicati anche in altro procedimento, si riuscì a ricostruire solo la sorte di 2 milioni che erano stati distribuiti a varie persone. Il documento prosegue:
 
    "Dei rimanenti 133 milioni, 25 furono prelevati la sera stessa del 25 aprile da Sclaverano Giuseppe, Commissario Politico della Formazione partigiana comandata da "Piero Piero", e portati ad Agliè. Cinque vennero subito distribuiti fra i partigiani della formazione; e di questi non è evidentemente possibile (a tanta distanza di tempo e senz’altre testimonianze che quelle, assai sospette, dei due furieri della formazione) ricostruire la particolareggiata destinazione. Gli altri venti milioni furono caricati - in sacchi - sull'automezzo di "Piero Piero" e portati da lui a Torino il 27 aprile, giorno in cui la formazione da lui comandata entrò a Torino. A questo punto esiste, nella cronistoria degli avvenimenti, una lacuna molto sospetta: lo Sclaverano che nella giornata aveva perso il contatto con "Piero Piero" rinvenne, in serata, la macchina del predetto, abbandonata nel cortile del Dopolavoro "Lancia" ed a bordo trovò soltanto un sacco contenente cinque milioni. Quindici milioni erano dunque spariti. La versione, data sin da allora da "Piero Piero ", che i sacchi continenti i biglietti fossero stati asportati nella confusione che accompagnò l'ingresso della formazione partigiana in città, non è in alcun modo controllabile".
 
    Ma che fine fece la somma residua? Anche in questo caso sì fanno delle supposizioni. Dice il rapporto:
 
    "Anche qui si naviga in pieno campo delle supposizioni; e a tanta distanza di tempo si deve onestamente escludere che la più accurata delle indagini possa portare a risultati concreti. Vanno peraltro rilevate due circostanze: l) - "Piero Piero non era solo a bordo della macchina, ma aveva con se il suo aiutante maggiore Canale Maggiorino, nonché suo cognato, noto sotto il nome di battaglia di "Cleber",- 2) - gli ignoti ladri lasciarono inspiegabilmente a bordo della macchina cinque milioni. E’ possibile che anche il Canale e il Cleber abbiano dimenticato l'esistenza dei preziosi sacchi ed abbiano fatto così cattiva guardia? 0 non è piuttosto lecito supporre che "Piero Piero" ed i suoi compari (che godono fama assai dubbia) abbian fatto sparire la maggior parte della somma, lasciando a bordo quel tanto che bastava per soddisfare le esigenze dei loro uomini, in quei giorni, e per distoglierli quindi dal far domande indiscrete? Una circostanza, è certa: "Piero Piero" dopo la liberazione, mutò completamente tenore di vita. Prima semplice operaio meccanico, conduce ora una vita dispendiosa, senza dedicarsi ad alcuna attività ben definita, possiede una lussuosissima macchina, è assiduo frequentatore di case da gioco, dove arrischia ingenti somme".
 
    Nel proseguimento delle indagini si accertò che "Piero Piero" era fratello del famigerato Urati che aveva capeggiato la banda Bedin di triste memoria e che era stato ucciso in un conflitto a fuoco con la Polizia. Si appurò anche che nella Questura di Torino era esistito un voluminoso fascicolo al nome di Urati Piero, il "Piero Piero" appunto, fascicolo che poco dopo l'insurrezione sparì misteriosamente e non fu ritrovato. Grosso modo si poté stabilire con qualche approssimazione che fine avessero fatto 25 milioni. Restava da ricostruire la sorte dei residui 107 milioni. La relazione del Capo della Polizia continua:
 
    "Nel fascicolo relativo al riconoscimento della qualifica di partigiano di “Piero Piero” presso la Commissione Piemontese per l'accertamento delle Qualifiche Partigiane - di Torino - esistono alcuni documenti interessanti, e cioè: 1) una dichiarazione di "Piero Piero" che riconosce di aver ricevuto, in epoca successiva alla Liberazione, la somma di ventitré milioni e rotti, che avrebbe destinata al risarcimento dei danni sofferti dalla popolazione della zona canavesana ed al pagamento di premi per i suoi partigiani; 2) una lettera dell'avv. Paolo Della Giusta, già Commissario Politico Regionale per il Piemonte delle formazioni "Matteotti” residente a Milano - Via Sauro n. 9, nella quale questi dichiara di avere ritirato quale residuo della cassa della "“Monterosa” lire 106.074.096.
L'avv. Paolo Della Giusta nel verbale delle dichiarazioni rese il 19 febbraio c.a. alla Questura di Milano conferma di essersi recato nel Canavese, nella sua qualità di Commissario Politico delle brigate Matteotti del Piemonte, per il recupero della somma imprecisata appartenente alla Cassa Divisionale della Divisione repubblicana fascista "Monterosa", e che ad un primo sommario conteggio risultò ammontare a lire 106.074.096. Egli, inoltre, ebbe notizia che all'atto della presa di possesso della suindicata Cassa, erano state in precedenza dalla stessa prelevati 25 milioni, di cui 5 distribuiti agli uomini della Formazione partigiana "Giorgio Davito", nella piazza di Agliè. L'avv. Paolo Della Giusta dichiara altresì di aver consegnata la somma di Lire 106.074.096 all'ex Prefetto Piero Passoni dedotte lire 10.000.000, che il predetto Passoni autorizzò a versare al Comandante "Piero Piero' del raggruppamento "Giorgio Davito" che ne rilasciò ricevuta... (Omissis). La Prefettura di Torino, con foglio n. 1884 del 2 febbraio c.a. precisa che le somme della Divisione Monterosa consegnate dall'avv. Paolo Della Giusta, e versate alla Tesoreria Provinciale. per disposizione del Prefetto del tempo Rag. Luigi Passoni, e che furono contemporaneamente pagate al Comando Militare Regionale Piemontese, “per la corresponsione di premi, stipendi, e paghe ai componenti del "Corpo Volontari della Libertà", ammontava a Lire 76.074.096".
 
La conclusione è che, come afferma il documento,
 
    "Chi sa molte cose (e forse tutte) è l’ex Prefetto di Torino, Pier Luigi Passoni, il quale ricevendo il denaro dal Della Giusta e destinandolo, agì in più di una veste, e cioè, come Prefetto, come Presidente del Comitato Finanziario presso il C.L.N. Piemontese e come membro autorevole della Direzione del P S. Che il Partito Socialista, in fase clandestina, abbia anticipato delle somme per le formazioni "Matteotti" si può ritenere verosimile, sebbene non si abbia la possibilità di esperire alcun controllo in materia.
    E’ comunque certo che, per gran parte della guerra di liberazione e cioè fino al febbraio 1945, le diverse formazioni partigiane piemontesi non ricevettero nessun aiuto dal Governo di Roma e dovettero provvedere alla loro esistenza come potevano, i Partiti che sostennero le singole formazioni (e le avevano in certo modo tenute a battesimo) ne curarono il finanziamento e le sovvenirono in misura rilevantissima. Nulla di più logico che, a liberazione avvenuta, le casse dei diversi Partiti (che si erano trovate, per quanto mi consta, tutte nella stessa situazione) cercassero di recuperare almeno una parte del denaro anticipato... (Omissis).
... E’ risultato, inoltre, che, specie nel periodo successivo alla liberazione, il Partito Socialista torinese portò in palma di mano il Piero Piero, il quale andò sbandierando forti protezioni politiche. 
    Dopo lo scandalo del Convegno Partigiani di Firenze in cui Piero Piero fu pubblicamente tacciato di disonestà dal Comandante Partigiano Mario Pellizzari, le sue azioni sono in ribasso. Non si è potuto accertare se egli sia rimasto nel RS.L o abbia aderito al RS.L.L
Il Capo della Polizia
 
Una nota di Scelba
    Dopo avere esaminato la relazione, il Ministro la corredò di un suo appunto manoscritto in data 10-9(47) che diceva testualmente:
    "Prego riferirmi. 1) se è stata fatta denuncia all'autorità giudiziaria. 2) Qual'è lo stato attuale delle indagini e chi le conduce - Scelba".
    Naturalmente queste domande davano luogo, fin dal giorno successivo, ad una analoga richiesta del suo Capo di Gabinetto alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. La risposta venne indirettamente di lì a poco, il 10 ottobre successivo, tramite un rapporto del Capo della Polizia indirizzato al Ministero di Grazia e Giustizia e per conoscenza al Gabinetto del Ministro dell'Interno. Tale rapporto, dopo avere ancora una volta illustrato il caso, terminava in questo modo:
 
    “Si portano a conoscenza di codesto Ministero i fatti suesposti, perché sia provveduto ad investire l'autorità Giudiziaria competente per territorio dell'azione penale a carico dei responsabili della illecita appropriazione di una parte del denaro contenuto nella cassa della Divisione Alpina "Monte Rosa".
Il Capo della Polizia”
 
    Il ministro Scelba, esaminato anche questo rapporto, lo corredò ancora una volta di una nota a mano datata 31-10-(47) con la quale chiedeva di accertare "se il Ministero della Giustizia ha dato seguito alla denuncia".
 
    Accertamento che aveva la sua risposta positiva in data 24 novembre 1947 con la lettera n. 11338/1370 proveniente dal Capo di Gabinetto del Ministro di Grazia e Giustizia qui di fianco riprodotta [Nell'originale da cui è trattoi l'articolo. NDR].
    Qui finisce la parte nota della vicenda; dopo questa comunicazione del Ministero di Grazia e Giustizia non si è trovato altro che chiarisca quale esito avesse avuto la denuncia all'Autorità Giudiziaria, sempre che ci sia stata. Probabilmente tutto è finito come tante altre “gloriose imprese" di quei tragici giorni. Quel che appare lampante è che era incominciata fin da allora "Tangentopoli"; non per niente nelle ultime pagine del rapporto del Capo della Polizia, si accenna, non tanto larvatamente, al Partito Socialista Italiano quale percettore di una parte del bottino. Era incominciata insomma la grande rapina.
 
Uccidere per rubare
    Decine e decine furono i casi simili che si verificarono in quei giorni. Si arrivò perfino ad uccidere per impossessarsi dei fondi di qualche reparto militare della R.S.I., come accadde a Vittorio Veneto dove la cassa del Btg. M "IX settembre", contenente 750.000 lire, fece gola agli eroi dell'imboscata che uccisero e fecero scomparire per sempre il giovane Sottotenente Gianmatteo Signori che l'aveva in consegna. Forse anche questi delitti saranno stati considerati "atti di guerra" come tanti altri e, come tanti altri, amnistiati con il Regio Decreto 5.4.1944, n. 96 modificato con il Decreto Legge Luogotenenziale del 12.4.1945, n. 194. in conclusione, al di fuori dei documenti di Archivio menzionati, al fine di meglio illustrare la figura di "Piero Piero", al secolo Pietro Urati, il maggior protagonista della losca vicenda, occorre aggiungere che costui era il comandante della banda partigiana che l'8 luglio 1944, con un inganno (lo scambio di prigionieri), attirò in un agguato sulla piazza di Ozegna un reparto di circa quaranta uomini della Xa M.A.S. comandato dal capitano di corvetta Umberto Bardelli. Dieci militari, compreso il comandante, furono trucidati, seviziati "post mortem" e occultati in un letamaio; sono note le fotografie degli uccisi, sfigurati dalle percosse loro inferte e della bocca spalancata del comandante Bardelli al quale erano stati estirpati i denti d'oro.
 
 
STORIA VERITA’ N. 23-24 Settembre-Dicembre 1995 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

UNA VITA RIBELLE
Guido Minzoni
 
 
    Il 23 febbraio 1996 si chiude la travagliata esistenza di Francesco Montanari. Ne danno notizia, con una pagina il giornale di Feltri, con mezza il Carlino edizione Forlì-Cesena, con poche righe gli altri quotidiani, bocca cucita le televisioni. Eppure non era stato un personaggio di poco conto. Era nato 76 anni prima a Ravenna dove i Montanari sono numerosissimi; si era trasferito in giovane età, con la famiglia, in quel di Cesena; al momento delle scelte difficili, alla fine del 1943, entrò nelle formazioni partigiane repubblicane, divenendo il comandante «Cincino». Era laureato in ingegneria. Subito dopo la fine della guerra manifestò avversione a tutto ciò che era seguito al conflitto e si scagliò con veemenza specialmente contro i suoi compagni di cordata, bollando d'infamia in primo luogo i «patrioti» comunisti che a guerra ultimata avevano infierito con inaudita malvagità su chi aveva deposto le armi. Anche fuori dai confini della Romagna i Montanari sono numerosi, Ostello Montanari, per esempio, rimasto famoso per la celebre esortazione «Chi sa parli!» è colui che si illuse che gli appartenenti al PCI da lupi si tramutassero in agnelli semplicemente cambiando nome al partito. Andando indietro nel tempo, un altro cesenate, Leonida Montanari medico e patriota, fu condannato a morte a Roma nel 1825 perché militante nella Carboneria.
    Infine, nel 1799, durante l'occupazione francese, il capitano Francesco Montanari, al comando di un gruppo di insorti, espugnò la Rocca di L’Ugo. Ma il fatto che aveva maggiormente colpito Francesco Montanari fu quello accaduto in Piazza Venceslao a Praga, dove un giovane ebbe il coraggio di bruciarsi per la libertà del suo popolo.
    Lo scrisse anche al Presidente della Repubblica: «Farò la fine di Jan Palak». Dal Quirinale risposero: «Il Presidente non ha autorizzato dichiarazioni in merito»... Misteriosa esternazione dell'Oscar nazionale!...
    Aveva Francesco Montanari il grande torto di avere scritto cose roventi contro la resistenza, per cui non meritava risposta.
    Aveva ribadito né più né meno tutto ciò che già avevano dichiarato altri Comandanti partigiani, a cominciare da Edgardo Sogno e Primo Ricci, ed altri ancora che non possono certo essere tacciati di nostalgico fascista, e cioè Romolo Gobbi, Gianfranco Stella e Renzo De Felice.
 Ecco perché s'è creato il vuoto intorno a questo personaggio, che merita il nostro rispetto, essendosi dimostrato un avversario leale, uno scrittore coraggioso, un autentico galantuomo. Così concludeva la sua confessione Francesco Montanari:
    Il mio non è un gesto inconsulto, ma un gesto di protesta nei riguardi dei principali responsabili di questo sfascio morale e materiale dell'Italia: politici, sindacalisti, preti e donne. Vi saluto tutti, amici e nemici, e vi prometto che se di là si sta peggio che di qua vi scriverò. Ma se non riceverete niente vuol dire che si sta meglio. Comunque vi assicuro fin d'adesso che là non incontrerete mai delle brutte facce che non sanno minimamente cosa sia la giustizia e l'umana comprensione.
    Caro Cincino, il cielo ti ha degnamente accolto e siamo contenti di sapere che finalmente vedi solo facce belle e pulite.
 
 
Ecco i passi più salienti dell’agghiacciante lettera che Francesco Montanari ha scritto pochi giorni prima di togliersi la vita.
 

 
   Coloro i quali detengono le leve del potere faranno tutto il possibile per farmi passare per matto o anormale. Mi sembra di sentirli: «Se avesse avuto un po' di testa non si sarebbe ammazzato!». E invece è proprio il contrario! Mi ammazzo perchè so valutare la sora Morte nella maniera giusta - e non come la dipingono i preti o quelli che dicono di credere in Dio -, perchè ho dignità, moralità, sensibilità e coraggio, per cui in questo letamaio pieno di miserie, ingiustizie e violenza, dove comandano i ladri, i delinquenti, i mafiosi, si potranno trovare bene i loro compari, gli incoscienti, gli irresponsabili e le pecore, ma non il sottoscritto. Ho sempre lottato per il bene del mio paese e non per il mio personale. Ma con quali risultati? Siamo andati sempre di male in peggio. Quando erano tutti fascisti io ero uno dei pochi che non erano d’accordo con “Il Duce ha sempre ragione”. Poi durante la guerra sono stato un Comandante Partigiano. Ma di poco merito. Perchè non ero comunista.
   Quasi subito dopo il 25 aprile '95 mi accorsi che gli antifascisti, quelli per cui avevo rischiato tante volte la vita, facevano peggio dei fascisti. E così, rinunciando a prerogative e privilegi favolosi (nel ‘47 ero Direttore del Consorzio Idraulico e di Bonifica di Cesena: guadagnavo 50 mila lire al mese e credo fosse tra quelli dei funzionari pubblici lo stupendo più alto di tutta la provincia di Forlì) lasciai l’Italia e approdai nei lidi - allora ridenti e beati del Venezuela.
   Di tutte le umiliazioni e mortificazioni che ho dovuto sopportare in questo trentennio, le peggiori sono dovute alla negligenza e alla trascuratezza che i vari governi d'Italia (ne ho contati 55!) hanno sempre dimostrato verso gli italiani residenti all'estero, che sono gli unici emigranti (per volontà dei comunisti e per la pusillanimità o dappocaggine dei democristiani) senza il diritto di voto. Di tutti i nostri cosiddetti «onorevoli», l'unico che si è battuto per farci riconoscere i nostri diritti è Mirko Tremila... Che Dio, oppure Giove, l'abbia in gloria!
   Gli italiani sono un branco di pecore che hanno consegnato il loro «scarso cervello» all'ammasso del partito o del prete, si fanno tosare, castrare o macellare senza mai reagire. Dunque ormai provo nausea a vivere in questa ripugnante società di ladri, di delinquenti e di pecore. Perciò vi dico: «Io non ci sto più». E tolgo il disturbo.
   Il mio non è un gesto inconsulto ma un gesto di protesta nei riguardi dei principali responsabili di questo sfascio morale e materiale dell’Italia: politici, sindacalisti, preti e donne.
 
   Vi saluto tutti amici e nemici. E vi prometto che se di là si sta peggio che di qua, vi scriverò. Ma, se non riceverete niente, vuol dire che si sta meglio. Comunque vi assicuro, fin d'adesso, che là non incontrerete mai delle brutte facce che non sanno minimamente cosa sia la giustizia e il senso umanitario.
                Francesco Montanari
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 4. Aprile 1996. Direzione e Redazione. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

 
EROI PER COSA?
Lettera al Corriere della sera del 15 Settembre 1997
 
    Sul "Corriere" del 10 settembre, a pag. 27, in un occhiello all'articolo di Enzo Macrì leggo la frase "1943, la liberazione della Sicilia", che mi ha sconcertato. 50 anni fa persi uno zio, capitano d'artiglieria, morto a Mazara del Vallo, per contrastare l'avanzata alleata. Mi chiedo: se questi angloamericani erano i liberatori della Sicilia, mio zio e i nostri soldati che li combatterono cos'erano, aguzzini? O non furono gli stessi angloamericani a considerare "l'isola territorio occupato" sotto il "Governo Militare Alleato"? Parlare di "liberazione" prima dell'8 settembre appare prematuro.
Enzo Schiuma
Roma
 

LA MARINA IN CATENE Come ho rivisto le nostre navi
Fabio Lisi
 
 
    Avemmo la ventura di rivederla, noi prigionieri del Kenya, sulla via del rimpatrio, in quell'infocato e rapido tramonto del 24 dicembre del 1946, la nostra Marina da guerra sudore e sangue del popolo italiano. Si stagliavano all'orizzonte le nostre belle navi prigioniere anch'esse e costrette, dall'implacabile odio degli inglesi, a buttare le ancore ai "Laghi amari", a circa metà percorso del canale di Suez. Un profondo, improvviso silenzio regnò su quella nave inglese (la M/N "Moolton"), carica di migliaia di relitti umani, la maggior parte prigionieri non cooperatori, che per oltre cinque anni, erano stati costretti a marcire - moralmente e materialmente - nei campi di prigionia del Kenya. Erano i superstiti di quella magnifica gioventù che 12 anni prima aveva attraversato il canale, diretta a sud, in un tripudio di canzoni patriottiche intonate dalla indimenticabile Maria Uva, dalla sponda africana, in un turbinio di tricolori sventolati dai numerosi italiani d'Egitto. Erano i superstiti di quella meravigliosa epopea africana, che melanconicamente guardavano per l'ultima volta, in quel duplice tramonto, quelle magnifiche navi di una delle più grandi Marine di allora, mentre un groppo saliva alla gola e si affollavano alla mente i ricordi degli avvenimenti di quel tragico settembre del 1943. 
    Mai, nella storia delle Nazioni, si era verificato che una Marina, dalle nobili tradizioni, si fosse consegnata al nemico vincitore. Se ne vantarono allora soprattutto gli inglesi e i nostri sciocchi negoziatori della resa. Ci ha amaramente mortificato, dopo, I'ammiraglio Cunningham, comandante la flotta inglese del Mediterraneo quando ha scritto che, nell'avvistare all'orizzonte la flotta italiana, al comando dell'ammiraglio Oliva, in quella mattina del 9 settembre 1943, avrebbe preferito vedere le nostre navi innalzare, sui loro pennoni, non la nera bandiera della resa ma la bandiera da combattimento anziché continuare melanconicamente la umiliante navigazione verso la base navale di Malta. 
    L'8 settembre è stato il più grande e sporco affare della storia (sporco affare lo definì anche il gen. Eisenhower) con conseguenze drammatiche per il popolo italiano, che di lì a poco sarebbe stato spinto ad una guerra fratricida, senza precedenti, scavando un incolmabile solco fra gli italiani. 
    Solo dopo oltre cinquant'anni, in occasione della recente giornata delle Forze Armate e del decorato al Valor Militare, il Presidente della Repubblica ha pronunciato, in quella storica Piazza davanti al monumento al Milite lgnoto, parole di riconciliazione nazionale. Anche se il riconoscimento è tardivo, lenisce l'amarezza della mia generazione, di quella generazione che ebbe la ventura di vivere momenti esaltanti e drammatici della storia d'ltalia e che nel dopoguerra, con inimmaginabili sacrifici, contribuì in modo determinante alla ricostruzione ed al miracolo economico. 
    Non ci convince invece la politica dell'attuale governo di Centro-sinistra che, oltre imporre una dittatura economica, tenta - occupando tutti i gangli della vita nazionale - d'instaurare un regime strisciante, di sinistra. L'ultimo e più recente tassello lo ha posto il pidiessino ministro della Pubblica Istruzione che ha disposto l'insegnamento, agli studenti dell'ultimo anno della scuola dell'obbligo e dell'ultimo anno della scuola media superiore, della storia di questo secolo spezzando le radici della storia del passato. Ci corre il fondato dubbio che si continui, come si è fatto per circa cinquant'anni, a bollare solo certi errori, tacendo i molti altri ben più gravi, con la volontà di limitare la conoscenza degli avvenimenti sgraditi agli attuali uomini di palazzo. Ancora non basta ingannare i giovani di queste ultime generazioni cloroformizzati da una falsa cultura di sinistra, smarriti moralmente e senza un punto di riferimento. 
    Ora, questi stessi governanti, per ragioni di politica interna cercano di risvegliare sentimenti di unità nazionale. Sono gli stessi, o loro seguaci, che per decenni con la loro falsa predicazione, hanno dissacrato tutti i valori e quei sacrosanti sentimenti di amor patrio. 
    Ma costoro su cosa possono far leva? La mia generazione, ormai sulla via del tramonto, chiede che sia finalmente fatta conoscere a questa nuova generazione la storia vera, la storia dei loro padri, la storia della Patria. Chiede inoltre che nelle piazze sventoli il tricolore d'Italia, simbolo di unità nazionale, e non le bandiere rosse, ormai ammainate anche nei Paesi dell'Est. 
    Ci conforta nel costatare che molti, tanti italiani, non si arrendono e continuano a fare il proprio dovere e a combattere con determinazione quel sinistrismo che ha fatto e continua a fare tanto male al popolo ed all'Italia. 
    Nell'attuale grave momento di smarrimento generale, con la Nazione allo sbando moralmente ed economicamente, rivolgiamo un pensiero riconoscente a tutte le Forze dell'ordine, di tutte le specialità, che giornalmente si sacrificano per combattere quella criminalità nazionale ed extracomunitaria sempre più dilagante in tutti i campi della vita nazionale. 
 
 
VOLONTA’ N. 8-9 Agosto-Settembre 1997 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

L'OTTO SETTEMBRE NELLA VISIONE DELLO SCRITTORE CURZIO MALAPARTE
 
 
SUI VARI MODI
DI FAR LA STORIA
L'Otto Settembre è un giorno memorando: 
volta la fronte all'invasor nefando, 
l'Italia con l'antico suo valore 
alla vittoria guidò il vincitore.
 
L'Otto Settembre è memorabil data: 
volte le spalle all'infausta alleata, 
già col ginocchio a terra, 
corremmo a vincer coi nostri nemici 
arditamente quella stessa guerra 
che avevamo già persa con gli amici.
 
Tutto è chiaro fin qui, semplice e onesto: 
son due modi di dire, 
né val saper se quello è meglio o questo. 
Or dobbiam stabilire 
quale fu mai l'amico e quale fu il nemico, 
qual l'alleato e quale l'invasore. 
Dopo aver decretato 
che nemico e alleato, amico e invasore 
fu il vinto, e il vinto solo, 
è da chiarire quale fu il vincitore.
 
 
DUE MODI
DI VINCER LA GUERRA
La guerra è sempre un gioco di denari, 
specie le guerre in stile liberty.
Gli americani compran gli avversari, 
noi li vendiamo: il gioco è tutto qui.
 
 
IL POETA ESORTA I REDUCI AD ANDARE ORGOGLIOSI DELLE FERITE RICEVUTE A TRADIMENTO
A darvi il colpo nelle rene
non fu l'Inglese che v'era di fronte. 
L'inglese è un popolo bifronte, 
è tutto petto e non ha schiene. 
L'inglese ha sangue nelle vene 
pallido e diaccio, ma colpisce al petto. 
Ahi, quel coltello maledetto 
donde viene? donde mai viene? 
Perché tornate, o facce gialle, 
con un coltello fra le spalle?
 
RITRATTO DEGLI EROI
In Italia gli eroi fan schifo ai cani. 
Non vanno in guerra, non rischian la pelle, 
sorridono al nemico, e fan fortuna 
vendendo i morti per concime ai vivi. 
Chi sul campo al nemico offrì la fronte, 
chi lottò, chi mori, copron di sputi. 
Così salvan l'Italia. Non sul campo, 
oh, non sul campo. Sulle piazze, dove da molti anni 
gli eroi vincon le guerre. 
Belle piazze ha l'Italia, ove non tira vento né piove, 
e ognuno ha il sole in fronte. 
Nobil razza gli eroi, razza di schiavi. 
Sputan sui vinti, sporcan le bandiere, 
fan da ruffiani e drudi ai vincitori, 
li accolgono cantando Italia! Italia! 
Si fan padroni degli schiavi altrui, 
servi si fanno degli altrui padroni. 
Libertà van lordando, ch'è sì cara.
 
 
Curzio Maiaparte, Il Battibecco, 1949

DOMUS